Un passo fatto… Comunità o comunella (15/02/2013)

romanzo(1)Comunità o comunella – Amicizia o complicità?

Un Passo del 15 Febbraio 2013  tutto dedicato all’amicizia.

In questo incontro, intitolato «Comunità o comunella?» è affrontato il tema della comunità nel contesto della fede cristiana, con un linguaggio rivolto sia ai credenti sia ai dubbiosi, per approfondire una questione di grande attualità. Combattuti tra il desiderio di superare la solitudine e la paura di una vera comunità. La voglia di amicizia sincera e la tendenza a ripiegare su “comunelle” basate sulla complicità. Una riflessione su temi come amicizia, comunità, lealtà e i loro surrogati.

 

 

 


Audio Catechesi


Extra Catechesi

“Centuplo quaggiù vuol dire che amerete cento volte di più la vostra ragazza, amerete cento volte di più il vostro ragazzo, amerete cento volte di più il vostro papà e la vostra mamma, amerete cento volte di più i vostri compagni di scuola, ché siete cinque anni che siete assieme e c’è un’estraneità totale, non c’è amicizia tra voi, c’è soltanto una connivenza: una connivenza ad andare a fare le malefatte o una connivenza per andare in montagna insieme il sabato e la domenica, ma non c’è amicizia perché l’amicizia è un rovesciare la propria esistenza nella vita del’altro”.

Don Giussani


«È molto meno facile governare e controllare uomini che hanno dei veri amici;

è più difficile, per le buone autorità, correggerli, e per le cattive autorità, corromperli. Da ciò deriva che se i nostri capi, con la forza o con la propaganda a favore della “socievolezza”, oppure invadendo la sfera del privato e annullando le occasioni in cui si può usufruire del tempo libero, riuscissero mai a creare un mondo in cui tutti fossero compagni,  ma non esistessero amici, essi avrebbero sì rimosso alcuni pericoli, ma ci avrebbero anche privati di qualcosa che costituisce, forse, la nostra unica salvaguardia contro il completo asservimento»

(C.S. Lewis – I quattro amori, p. 77)


«Per gli antichi, l’amicizia era il più felice e il più completo degli affetti umani, coronamento della vita, e scuola di virtù. Il mondo moderno, in confronto, l’ignora. Ovviamente, chiunque è disposto ad ammettere che un uomo, oltre che di una moglie e di una famiglia, ha bisogno anche di “qualche amico”; ma il tono stesso di quest’ammissione e il tipo di conoscenze che vengono poi definite “amicizie” mostrano chiaramente che ciò cui si fa riferimento ha ben poco a che vedere con la philia che Aristotele classificava tra le virtù, o con quell’amicitia sulla quale Cicerone scrisse un trattato.  È un fattore del tutto marginale; non è la portata principale nel banchetto della vita, ma semplicemente uno tra i tanti contorni: è qualcosa che serve a riempire i momenti vuoti del nostro tempo. Come siamo arrivati a questo punto?»

(C.S. Lewis, I quattro amori, pp. 59-60)


dalle Lettere di Berlicche di C.S. Lewis

Mio caro Malacoda,

ho notato con profondo dispiacere che il tuo paziente s’è fat­to cristiano. Non nutrire speranza alcuna di sfuggire alle pu­nizioni che si sogliano infliggere in simili casi. Sono certo del resto che, nei tuoi momenti migliori, neppure tu lo desidere­resti. Nel frattempo è necessario ricavare il meglio possibile da una tale situazione. Non bisogna disperarsi. Centinaia di codesti convertiti adulti sono stati recuperati dopo un breve soggiorno nel campo del Nemico ed ora sono con noi. Tutte le abitudini del paziente, tanto le mentali quanto le spirituali, ci sono ancora favorevoli. Uno dei nostri grandi alleati, al presente, è la stessa chie­sa. Cerca di non fraintendermi. Non intendo alludere alla chiesa come la si vede espandersi attraverso il tempo e lo spazio, e gettar le radici nell’eternità, terribile come un eser­cito a bandiere spiegate. Confesso che questo è uno spettacolo che rende nervosi i nostri più ardimentosi tentatori. Ma for­tunatamente essa è del tutto invisibile a codesti esseri umani. Tutto ciò che il tuo paziente vede è quel palazzo, finito solo a metà, di stile gotico spurio, che si erge su quel nuovo ter­reno.

Quando entra, vi trova il droghiere locale, con un’espres­sione untuosa sul volto, che si dà da fare per offrirgli un librino lustro lustro che contiene una liturgia che nessuno di loro due capisce, e un altro libriccino frusto, che contiene testi corrotti di un certo numero di liriche religiose, la mag­gior parte orrende, e stampate a caratteri fittissimi. Entra nel banco, e, guardandosi intorno, s’incontra proprio con quella cernita di quei suoi vicini che finora aveva cercato di evitare. Devi far leva più che puoi su quei vicini. Fa’ in modo che la sua mente svolazzi qua e là fra un’espressione quale «il corpo di Cristo» e le facce che gli si presentano nel banco accanto. Importa pochissimo, naturalmente, la razza di gente che in realtà s’è messa nel banco vicino. Tu puoi sapere magari che uno di loro è un grande combattente dalla parte del Ne­mico. Non importa. Il tuo paziente, grazie al Nostro Padre Laggiù, è uno sciocco. Se uno qualsiasi di questi vicini canta con voce stonata, se ha le scarpe che gli scricchiolano, o la pappagorgia, o se porta vestiti strani, il paziente crederà con la massima facilità che perciò la loro religione dev’essere qualcosa di ridicolo. Vedi, nella fase in cui si trova al presente, egli ha in mente una certa idea dei «cristiani», che crede sia spirituale, ma che, di fatto, è per molta parte pittoresca. Ha la mente piena di toghe, di sandali, di corazze e di gambe nude, e il solo fatto che l’altra gente in chiesa porta vestiti moderni è per lui una seria difficoltà, quantunque, natural­mente, inconscia. Non permettere mai che venga alla super­ficie; non permettere che si domandi a che cosa s’aspettava che fossero uguali. Fa’ in modo che ogni cosa rimanga ora nebulosa nella sua mente, e avrai a disposizione tutta l’eter­nità per divertirti a produrre in lui quella speciale chiarezza che l’Inferno offre. Lavora indefessamente, dunque, sulla disillusione e il di­sappunto che sorprenderà senza dubbio il tuo paziente nelle primissime settimane che si recherà in chiesa. Il Nemico per­mette che un disappunto di tal genere si presenti sulla soglia di ogni sforzo umano. Esso sorge quando un ragazzo, che da fanciullo s’era acceso d’entusiasmo per i racconti dell’Odissea, si mette seriamente a studiare il greco. Sorge quando i fidan­zati si sono sposati e cominciano il compito serio di imparare a vivere insieme. In ogni settore della vita esso segna il pas­saggio dalla sognante aspirazione alla fatica del fare. Il Ne­mico si prende questo rischio perché nutre il curioso ghiribizzo di fare di tutti codesti disgustosi vermiciattoli umani, altrettanti, come dice Lui, suoi «liberi» amanti e servitori, e «figli» è la parola che adopera, secondo l’inveterato gusto che ha di degradare tutto il mondo spirituale per mezzo di legami innaturali con gli animali di due gambe.

Volendo la loro libertà, Egli si rifiuta di portarli di peso, facendo uso soltanto delle loro affezioni e delle loro abitudini, al raggiun­gimento di quegli scopi che pone loro innanzi, ma lascia che «li raggiungano essi stessi». Ed è in questo che ci si offre un vantaggio. Ma anche, ricordalo, un pericolo. Se per caso riescono a superare con successo quest’aridità iniziale, la loro dipendenza dall’emozione diventa molto minore, ed è perciò più difficile tentarli.

Quanto sono venuto esponendo finora vale nella ipotesi che la gente del banco vicino non offra alcun motivo ragio­nevole di disillusione. È chiaro che se invece lo offrono – se il paziente sa che quella donna con quel cappellino assurdo è una fanatica giocatrice di bridge, che quel signore con le scar­pe scricchiolanti è un avaro e uno strozzino – allora il com­pito ti sarà molto più facile. Si ridurrà a tenergli lontano dalla mente questa domanda: «Se io, essendo ciò che sono, posso in qualche senso ritenermi cristiano, per quale motivo i vizi diversi di quella gente che sta lì in quel banco dovrebbero essere una prova che la loro religione non è che ipocrisia e convenzione?».  Forse mi chiederai se è possibile tener lon­tano perfino dalla mente umana un pensiero così evidente. Sì, Malacoda, sì, è possibile! Trattalo come deve essere trattato, e vedrai che non gli passerà neppure per l’anticamera del cer­vello. Non è ancora stato a sufficienza con il Nemico per pos­sedere già una vera umiltà. Le parole che ripete, anche in ginocchio, sui suoi numerosi peccati, le ripete pappagallesca­mente.

In fondo crede ancora che lasciandosi convertire, ha fatto salire di molto un saldo attivo in suo favore nel libro mastro del Nemico, e crede di dimostrare grande umiltà e degnazione solo andando in chiesa con codesti «compiaciuti» vicini, gente comune. Mantienigli la mente in questo stato il più a lungo possibile.

Tuo affezionatissimo zio

Berlicche


“Darai tu la vita per me?”
Una rilettura della triplice domanda di Gesù a Pietro  (Gv 21, 15-17)

15 Quando dunque ebbero mangiato disse Gesù a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami più di queste cose?». Gli disse: «Sì, Signore, tu sai che ti sono amico». Gli disse: «Pasci i miei agnelli».  16 Gli disse di nuovo una seconda volta: «Simone di Giovanni, mi ami?». Gli disse: «Sì, Signore, tu sai che ti sono amico». Gli disse: «Sii pastore delle mie pecore».  17 Gli disse la terza volta: «Simone di Giovanni, mi sei amico?». Si addolorò Pietro poiché alla terza volta gli avesse detto: Mi sei amico?, e gli disse: «Signore, tutto tu sai; tu conosci che ti sono amico». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore».

1. “Mi ami più di queste cose?”
    Questa traduzione alternativa è legittima perché l’originale greco pléon toúton apre a diverse possibilità.  Il senso della prima domanda di Gesù a Pietro nella versione normale CEI sembrerebbe non funzionare a dovere. Gesù chiede a Pietro se lo ama più degli altri discepoli, ma come può il discepolo quantificare l’amore degli altri per il maestro? E poi perché Gesù dovrebbe farsi amare più da lui che dagli altri? Sembra invece essere più efficace la traduzione “mi ami più di queste cose?”, intendendo con “queste cose” la professione che Simone esercitava, la pesca, con tutto quello che comporta: barche, reti, pesci, ecc. Tra l’altro Pietro aveva appena pescato e si era buttato in mare per raggiungere Gesù sulla riva. È come se il Signore chiamasse nuovamente Pietro a seguirlo, come aveva già fatto all’inizio del suo ministero pubblico, ma questa volta in modo ancora più radicale, perché siamo dopo la passione, morte e risurrezione di Gesù. Gesù chiede a Pietro di lasciare l’occupazione della pesca per “pascere le pecore”, un’alternativa alla pesca. Viene domandato a Pietro di abbandonare la sua sicurezza materiale, di barche, reti e pesci abbondantemente moltiplicati da Gesù, per attingere direttamente alla fonte della vita.
La “sequela” vale più della pesca, Gesù chiede a Pietro e agli altri discepoli di non attaccarsi alla pesca, alle sicurezze offerte dalla professione, ai frutti positivi di un lavoro o di un miracolo bensì di restare sempre al seguito del Maestro. La relazione fondamentale è con il Signore, ogni altra sicurezza umana (economica, professionale, affettiva) rischia di posporre l’unica e decisiva àncora della vita, il Signore Risorto.

2. “Si addolorò Pietro poiché alla terza volta gli avesse detto: Mi sei amico?”

La terza domanda di Gesù a Pietro raggiunge il vertice della tensione del discorso. Per capire il senso di questa domanda dobbiamo avere presente il dialogo tra il Signore e Pietro nell’ultima cena (Gv 13, 36-38): Simon Pietro gli dice: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado per ora tu non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte». Nel Vangelo di Giovanni dire “mi sei amico?” equivale a dire “darai la tua vita per me?”. Infatti in Gv 15, 12-14 Gesù dice ai discepoli durante l’ultima cena: Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Gesù ci dice che saremo suoi amici se faremo ciò che ci comanda. E cosa ci comanda? Di amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amati. E come si fa ad amare veramente una persona? Dando la propria vita per lei. Quindi saremo suoi amici se saremo capaci di dare la nostra vita per Lui, e – in definitiva – per gli altri. Ecco perché l’effetto della domanda di Gesù a Pietro è spiazzante, tanto che Pietro se ne addolora. Innanzitutto perché si è ricordato del triplice rinnegamento di cui si era reso colpevole quando Gesù venne arrestato. E poi perché alla terza volta (e non perché gli aveva chiesto per tre volte la stessa cosa!) Gesù gli fa la domanda decisiva: “darai la tua vita per me?”, cioè “mi sei amico?”, cioè “vuoi essere davvero mio discepolo?”. Il dolore di Pietro non è psicologico, quasi come se Gesù lo avesse messo alla prova nella fiducia, ma è un dolore di tipo teologico, come è chiaro dalla dinamica del Vangelo di Giovanni, è il dolore del discepolo che attende il Signore, che soffre per la sua morte, il suo distacco, ma che è pronto a gioire per il ritorno del Signore Risorto (Gv 20, 19-20). Pietro insomma prende coscienza della sua vocazione. Il Signore gli chiede di seguirlo in modo radicale  di dare la sua vita per la causa del Vangelo e della Chiesa, di cui dovrà essere pastore.

Libera rielaborazione del contributo «Il passaggio del “pastorale” da Gesù a Simon Pietro quale epilogo del cammino evangelico» di don Silvio Barbaglia in Per una teologia del cuore ed. Interlinea, Novara 2001


 

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail