Audio Omelie
In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre. E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò».
Queste le parole del Vangelo di oggi, festa dei Santi Filippo e Giacomo apostoli da cui ci lasciamo provocare. Il tema è quello della distanza che c’è tra le promesse di Gesù e le nostre impressioni e sensazioni immediate. Questa distanza genera tristezza, la stessa che provarono i discepoli più intimi all’annuncio che Gesù fece del suo ritorno al Padre.
Ora vado da colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Anzi, perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore.
Tristezza che in certi momenti riempie anche il nostro cuore. Sovente ci sentiamo molto in colpa perché nonostante un’intimità quotidiana con Gesù, molti di noi ogni giorno si nutrono del Suo Corpo, il nostro cuore resta pieno di questa tristezza. Le parole intime dei discorsi di addio di Gesù ci fanno paura, non ci scaldano. Non ci sorgono le domande importanti, quelle che Gesù si aspetterebbe da noi: nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Gesù conosce questa tristezza e non la condanna, la constata. Sa che solo il dono dello Spirito può togliere la paura, può dare il centuplo, può dare in mezzo alle prove e alle persecuzione la Sua Pace e la Sua Gioia compiuta. Ma resta il Mistero di quando questo Passaggio, questa Pasqua avvenga nella singola anima. Quando in noi. Di quanto possano essere le nostre resistenze a rallentare il tutto. O quanto certe sofferenze e tristezze siano invece un tempo di purificazione assolutamente necessario. Da Gesù come modello da guardare, da ammirare, da idealizzare allo Spirito che ci unisce a Lui, che ci fa entrare completamente nel Mistero del Figlio. Il dono dello Spirito Santo è successivo a una esperienza anche prolungata della presenza di Gesù, una presenza più immediata, più sensibile. Non vorremmo mai che questo Gesù da guardare, da meditare , se ne andasse. Ci è duro obbedire a Lui, al Maestro che ci dice è meglio per noi. Il dono dello Spirito è il vero dono attraverso cui Dio stesso può regnare in modo definitivo in noi.
di Padre Maurizio Botta C.O.
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 28 giugno 2006
Giacomo, il Minore
Cari fratelli e sorelle,
accanto alla figura di Giacomo “il Maggiore”, figlio di Zebedeo, del quale abbiamo parlato mercoledì scorso, nei Vangeli compare un altro Giacomo, che viene detto “il Minore”. Anch’egli fa parte delle liste dei dodici Apostoli scelti personalmente da Gesù, e viene sempre specificato come “figlio di Alfeo” (cfr Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 5; At 1,13). E’ stato spesso identificato con un altro Giacomo, detto “il Piccolo” (cfr Mc 15,40), figlio di una Maria (cfr ibid.) che potrebbe essere la “Maria di Cleofa” presente, secondo il Quarto Vangelo, ai piedi della Croce insieme alla Madre di Gesù (cfr Gv 19,25). Anche lui era originario di Nazaret e probabile parente di Gesù (cfr Mt 13,55; Mc 6,3), del quale alla maniera semitica viene detto “fratello” (cfr Mc 6,3; Gal 1,19). Di quest’ultimo Giacomo, il libro degli Atti sottolinea il ruolo preminente svolto nella Chiesa di Gerusalemme. Nel Concilio apostolico là celebrato dopo la morte di Giacomo il Maggiore, affermò insieme con gli altri che i pagani potevano essere accolti nella Chiesa senza doversi prima sottoporre alla circoncisione (cfr At 15,13). San Paolo, che gli attribuisce una specifica apparizione del Risorto (cfr 1 Cor 15,7), nell’occasione della sua andata a Gerusalemme lo nomina addirittura prima di Cefa-Pietro, qualificandolo “colonna” di quella Chiesa al pari di lui (cfr Gal 2,9). In seguito, i giudeo-cristiani lo considerarono loro principale punto di riferimento. A lui viene pure attribuita la Lettera che porta il nome di Giacomo ed è compresa nel canone neotestamentario. Egli non vi si presenta come “fratello del Signore”, ma come “servo di Dio e del Signore Gesù Cristo” (Gc 1,1).
Tra gli studiosi si dibatte la questione dell’identificazione di questi due personaggi dallo stesso nome, Giacomo figlio di Alfeo e Giacomo “fratello del Signore”. Le tradizioni evangeliche non ci hanno conservato alcun racconto né sull’uno né sull’altro in riferimento al periodo della vita terrena di Gesù. Gli Atti degli Apostoli, invece, ci mostrano che un “Giacomo” ha svolto un ruolo molto importante, come abbiamo già accennato, dopo la risurrezione di Gesù, all’interno della Chiesa primitiva (cfr At 12,17; 15,13-21; 21,18). L’atto più rilevante da lui compiuto fu l’intervento nella questione del difficile rapporto tra i cristiani di origine ebraica e quelli di origine pagana: in esso egli contribuì insieme a Pietro a superare, o meglio, a integrare l’originaria dimensione giudaica del cristianesimo con l’esigenza di non imporre ai pagani convertiti l’obbligo di sottostare a tutte le norme della legge di Mosè. Il libro degli Atti ci ha conservato la soluzione di compromesso, proposta proprio da Giacomo e accettata da tutti gli Apostoli presenti, secondo cui ai pagani che avessero creduto in Gesù Cristo si doveva soltanto chiedere di astenersi dall’usanza idolatrica di mangiare la carne degli animali offerti in sacrificio agli dèi, e dall’“impudicizia”, termine che probabilmente alludeva alle unioni matrimoniali non consentite. In pratica, si trattava di aderire solo a poche proibizioni, ritenute piuttosto importanti, della legislazione mosaica.
In questo modo, si ottennero due risultati significativi e complementari, entrambi validi tuttora: da una parte, si riconobbe il rapporto inscindibile che collega il cristianesimo alla religione ebraica come a sua matrice perennemente viva e valida; dall’altra, si concesse ai cristiani di origine pagana di conservare la propria identità sociologica, che essi avrebbero perduto se fossero stati costretti a osservare i cosiddetti “precetti cerimoniali” mosaici: questi ormai non dovevano più considerarsi obbliganti per i pagani convertiti. In sostanza, si dava inizio a una prassi di reciproca stima e rispetto, che, nonostante incresciose incomprensioni posteriori, mirava per natura sua a salvaguardare quanto era caratteristico di ciascuna delle due parti.
La più antica informazione sulla morte di questo Giacomo ci è offerta dallo storico ebreo Flavio Giuseppe. Nelle sue Antichità Giudaiche (20,201s), redatte a Roma verso la fine del I° secolo, egli ci racconta che la fine di Giacomo fu decisa con iniziativa illegittima dal Sommo Sacerdote Anano, figlio dell’Annas attestato nei Vangeli, il quale approfittò dell’intervallo tra la deposizione di un Procuratore romano (Festo) e l’arrivo del successore (Albino) per decretare la sua lapidazione nell’anno 62.
Al nome di questo Giacomo, oltre all’apocrifo Protovangelo di Giacomo, che esalta la santità e la verginità di Maria Madre di Gesù, è particolarmente legata la Lettera che reca il suo nome. Nel canone del Nuovo Testamento essa occupa il primo posto tra le cosiddette ‘Lettere cattoliche’, destinate cioè non a una sola Chiesa particolare – come Roma, Efeso, ecc. -, ma a molte Chiese. Si tratta di uno scritto assai importante, che insiste molto sulla necessità di non ridurre la propria fede a una pura dichiarazione verbale o astratta, ma di esprimerla concretamente in opere di bene. Tra l’altro, egli ci invita alla costanza nelle prove gioiosamente accettate e alla preghiera fiduciosa per ottenere da Dio il dono della sapienza, grazie alla quale giungiamo a comprendere che i veri valori della vita non stanno nelle ricchezze transitorie, ma piuttosto nel saper condividere le proprie sostanze con i poveri e i bisognosi (cfr Gc 1,27).
Così la lettera di san Giacomo ci mostra un cristianesimo molto concreto e pratico. La fede deve realizzarsi nella vita, soprattutto nell’amore del prossimo e particolarmente nell’impegno per i poveri. E’ su questo sfondo che dev’essere letta anche la frase famosa: “Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta” (Gc 2,26). A volte questa dichiarazione di Giacomo è stata contrapposta alle affermazioni di Paolo, secondo cui noi veniamo resi giusti da Dio non in virtù delle nostre opere, ma grazie alla nostra fede (cfr Gal 2,16; Rm 3,28). Tuttavia, le due frasi, apparentemente contraddittorie con le loro prospettive diverse, in realtà, se bene interpretate, si completano. San Paolo si oppone all’orgoglio dell’uomo che pensa di non aver bisogno dell’amore di Dio che ci previene, si oppone all’orgoglio dell’autogiustificazione senza la grazia semplicemente donata e non meritata. San Giacomo parla invece delle opere come frutto normale della fede: “L’albero buono produce frutti buoni”, dice il Signore (Mt 7,17). E san Giacomo lo ripete e lo dice a noi.
Da ultimo, la lettera di Giacomo ci esorta ad abbandonarci alle mani di Dio in tutto ciò che facciamo, pronunciando sempre le parole: “Se il Signore vorrà” (Gc 4,15). Così egli ci insegna a non presumere di pianificare la nostra vita in maniera autonoma e interessata, ma a fare spazio all’imperscrutabile volontà di Dio, che conosce il vero bene per noi. In questo modo san Giacomo resta un sempre attuale maestro di vita per ciascuno di noi.





